In
questo paese dove “il coraggio intellettuale della verità e la
pratica politica sono due cose inconciliabili” (P.P. Pasolini), è
illusorio aspettarsi soluzioni ai problemi della nostra professione
da chi sembra invece esercitarsi a creare ostacoli (finanziari ma non
solo) che finiscono con il soffocare entusiasmi, creatività e
libertà in un lavoro che vive di questo. Oggi, a differenza che nel
Medioevo, l’architettura va considerata un’arte maggiore, perché
incide fortemente sul territorio e sulla vita quotidiana degli
uomini, ne interpreta i bisogni e li traduce in soluzioni,
apparentemente tecniche, ma in realtà cariche di valenze sociali,
economiche, ambientali, politiche. È una professione che appartiene
a tutti, e questo aumenta la responsabilità di chi vi opera e di chi
la governa.
In
questa fase di grande crisi e di profondi cambiamenti, occorre allora
aprire una riflessione che non rimanga nel chiuso della nostra
corporazione ma che sia aperta alle idee anche più lontane, da un
lontano geografico e da un lontano temporale, che sia capace di
confrontarsi con la diversità di vedute, che discuta di obiettivi
funzionali, e però sostenibili ed esteticamente godibili, nella
consapevolezza che ogni forma non è neutra ma esprime un contenuto
interiore.
Siamo
di fronte a cambiamenti su molti fronti, che possono mettere in
gioco le nostre competenze, e in definitiva la nostra
professionalità. Non mi riferisco solo alle pur importanti
innovazioni di tipo fiscale, assicurativo, previdenziale (che pure
non saranno senza conseguenze, e di cui quindi bisogna discutere); e
neppure al problematico rapporto con ingegneri, geometri o periti
(che richiede comunque una risposta sui limiti
che ci distinguono e sulle relazioni che ci uniscono). Ma anche a
questioni di più largo respiro e di interesse più generale: le
difficoltà dei giovani, il precariato, il lavoro nero; e poi
l'insoddisfacente preparazione pratica, la formazione permanente e le
sue insufficienze, l’esodo dalla professione, le discriminazioni di
genere; infine, i livelli di soddisfazione del lavoro, nei suoi
aspetti espressivi, di contenuto e di qualità, ma anche nei suoi
risvolti strumentali, di reddito percepito e di reddito desiderato.
Di tutto questo non può non farsi parte attiva l’Ordine
professionale, che può diventare il laboratorio per la gestione
degli strumenti per la riqualificazione e la tutela del lavoro
dell'architetto. Da parte mia, per quello che so e posso, mi impegno
a dare su questi ed altri punti un contributo di idee e di proposte,
per una difesa non corporativa ma di rivendicazione dei profili più
alti della nostra professione.
Silvia
Angotti
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