mercoledì 17 aprile 2013

L'IMPOSSIBILITÀ DI ESSERE… ARCHITETTI

In questo paese dove “il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili” (P.P. Pasolini), è illusorio aspettarsi soluzioni ai problemi della nostra professione da chi sembra invece esercitarsi a creare ostacoli (finanziari ma non solo) che finiscono con il soffocare entusiasmi, creatività e libertà in un lavoro che vive di questo. Oggi, a differenza che nel Medioevo, l’architettura va considerata un’arte maggiore, perché incide fortemente sul territorio e sulla vita quotidiana degli uomini, ne interpreta i bisogni e li traduce in soluzioni, apparentemente tecniche, ma in realtà cariche di valenze sociali, economiche, ambientali, politiche. È una professione che appartiene a tutti, e questo aumenta la responsabilità di chi vi opera e di chi la governa.
In questa fase di grande crisi e di profondi cambiamenti, occorre allora aprire una riflessione che non rimanga nel chiuso della nostra corporazione ma che sia aperta alle idee anche più lontane, da un lontano geografico e da un lontano temporale, che sia capace di confrontarsi con la diversità di vedute, che discuta di obiettivi funzionali, e però sostenibili ed esteticamente godibili, nella consapevolezza che ogni forma non è neutra ma esprime un contenuto interiore.

Siamo di fronte a cambiamenti su molti fronti, che possono mettere in gioco le nostre competenze, e in definitiva la nostra professionalità. Non mi riferisco solo alle pur importanti innovazioni di tipo fiscale, assicurativo, previdenziale (che pure non saranno senza conseguenze, e di cui quindi bisogna discutere); e neppure al problematico rapporto con ingegneri, geometri o periti (che richiede comunque una risposta sui limiti che ci distinguono e sulle relazioni che ci uniscono). Ma anche a questioni di più largo respiro e di interesse più generale: le difficoltà dei giovani, il precariato, il lavoro nero; e poi l'insoddisfacente preparazione pratica, la formazione permanente e le sue insufficienze, l’esodo dalla professione, le discriminazioni di genere; infine, i livelli di soddisfazione del lavoro, nei suoi aspetti espressivi, di contenuto e di qualità, ma anche nei suoi risvolti strumentali, di reddito percepito e di reddito desiderato. Di tutto questo non può non farsi parte attiva l’Ordine professionale, che può diventare il laboratorio per la gestione degli strumenti per la riqualificazione e la tutela del lavoro dell'architetto. Da parte mia, per quello che so e posso, mi impegno a dare su questi ed altri punti un contributo di idee e di proposte, per una difesa non corporativa ma di rivendicazione dei profili più alti della nostra professione.
Silvia Angotti

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